Roma –15 Ottobre 2009 – Si è svolta ieri, nell’ aula 8 dell’ex Caserma Sani, ora sede della facoltà di Studi Orientali della Sapienza, la conferenza-dibattito incentrata sulle tematiche immigrazione e xenofobia, seguita dalla proiezione del documentario denuncia dal titolo “Respinti”, trasmesso su Rai Tre dal programma “Presa Diretta” di Riccardo Iacona. Il viaggio della speranza: un’ interminabile traversata rinchiusi in container, impossibile non notare la macabra somiglianza con i vagoni-merci impiegati nelle deportazioni dei vicini anni ‘40, se non già caduti nella dimenticanza. Ricercati, vessati, torturati e, nel migliore dei casi, uccisi. E’ questo il massacro che si sta consumando per migliaia di persone oggi, sotto agli occhi di chi vuole leggere tra le righe di gloriosi accordi e provvedimenti legali tra i più biasimabili che un governo possa concepire in proposito. Ma l’uomo è uomo, e oltre la luce del proprio lanternino, si sa, non sa andare.
Il terrorismo mediatico degli ultimi anni ha compiuto stragi di entità pari a una guerra di frontiera, perché la morte fisica, nella maggior parte dei casi, è meno dolorosa della perdita di dignità. Giusto informare, giusto trovare un rimedio, giusto pensare alla stabilità. Che però le informazioni siano complete, i rimedi appropriati, la stabilità comune e diffusa. Tanti gli sforzi in questa direzione, ma sforzi spesso immaturi, di chi vede le conclusioni per poi ricercarne le cause. E allora era meglio non sforzarsi proprio. Si è deciso che bisognava bloccare l’immigrazione in territorio italiano di persone provenienti dai cosiddetti paesi in via di sviluppo, si è deciso che il lavoro non bastava e che loro ne erano la causa, che il canale di Sicilia era il centro della tratta e che andava chiuso. E allora abbiamo creato i CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione), dove, poi, alcuni neanche arrivano. Abbiamo varato il “Pacchetto Sicurezza”, approvato il reato di immigrazione clandestina, assistito con indifferenza ai patti e le strette di mano. E adesso ditemi: in che misura pensiamo che il 7% dell’immigrazione totale nel paese possa ledere alla capacità occupazionale degli italiani? E come può lo stesso 7% rendere “insicure” le strade di un intero paese? Andiamo avanti. “Perché tutti in Italia? Siamo gli unici che li lasciano entrare incondizionatamente e senza restrizioni”. Questa la tesi, ed eccone, poi, i presupposti: in mezzo c’è solo il mare, basta pagare qualcuno perché li porti attraverso il canale. E adesso guardiamo le statistiche, quelle reali: le destinazioni principali dei migranti dai PVS, circa l’80% del totale, sono proprio altri PVS. “La povertà, ricordiamolo, può essere anche un ostacolo alla mobilità – ci mostra, dati alla mano, Maria Cristina Paciello, docente di Geografia Economico-Politica dei Paesi in Via di Sviluppo - Le persone più povere sono anche le meno mobili (…). Non sono i più poveri ad emigrare verso destinazioni molto lontane dal proprio paese d’origine, ma le persone con un medio livello di istruzione e i mezzi necessari ad affrontare il viaggio”. Unica in lista, ai primi posti tra PVS, la Germania. Ma quale, il paese europeo? Quello che è stato la destinazione di tanti italiani nel secolo scorso? La stessa Germania in cui la Fondazione Friedrich Erbert ha sostenuto il programma di integrazione “con l’apprendimento della lingua tedesca, la garanzia di una buona istruzione e formazione, il miglioramento delle condizioni di vita e lo sviluppo di un sentimento di appartenenza”? Eh, già, proprio quella. Scopriamo allora che l’Italia non è poi il centro del mirino delle immigrazioni, che le cause di un’accettazione passiva della cattiva informazione vanno ricercate in stati d’animo di tipo diverso. Secondo uno studio delle psicologhe del dipartimento milanese Chiara Volpato e Federica Durante, il pregiudizio si palesa in diverse forme di reazione sociale, dall’invidia al paternalismo, dal disprezzo all’ammirazione. Fondamenti di tali sviluppi non sono altro che quantità, qualità e status dei lavori svolti da una certa etnia, piuttosto che un’altra. Ma chi ci fornisce questi dati? Chi o cosa ha il potere di creare i presupposti del pensare comune? I media.
Dati parziali, fonti incerte. Pare che oggi, in Italia, la gente compri un giornale, piuttosto che un altro, a seconda della versione dei fatti che vuole sentirsi raccontare. Il mezzo d’informazione che si modella sul pensar comune, il pensar comune che cerca rifugio nel mezzo d’informazione. Per non parlare delle espressioni variamente usate da esponenti politici italiani di un certo rilievo e non, “niente case ai bingo bongo” (Umberto Bossi, 2003), “padroni in casa nostra” (Silvio Berlusconi, 2008), “l'equazione immigrazione-criminalità esiste” (Marco Rondini, 2009), “Stupri, spaccio di droga, occupazioni abusive e contraffazione sono alcuni dei reati commessi ogni giorno dagli immigrati” (Riccardo De Corato, vicesindaco di Milano, 2009), e la lista andrebbe avanti. Imbarazzanti confidenze tra le pagine di diari segreti? Magari. Si tratta, ahimè, di fiere dichiarazioni, sorrette da dati privi di fonti, il suddetto rifugio del pensar comune. Per sfatare, poi, il mito del “cattivo”, il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, si è dichiarato contrario all’immigrazione clandestina, contrario, quindi, secondo i dati riportati in conferenza dalla prof. Paciello, al 15% delle immigrazioni totali in UE. Peccato che, in realtà, soltanto una piccolissima parte dei migranti regolari che mettono piede in Italia avrà la possibilità di incontrare un avvocato e un interprete che ne garantiscano i diritti d’asilo. Anzi, nonostante un individuo presenti già i requisiti necessari ad essere ammesso in qualità di rifugiato politico, non viene fatto nessun tentativo di verificarne la condizione, né analisi alcuna del suo singolo caso: prassi comune in Italia è il respingimento collettivo. Già, proprio quello vietato dalla Convenzione di Ginevra del 1951.
“Quel che spesso non viene detto – ci ricorda Daniela Pioppi, docente di Storia dell’Egitto Contemporaneo – è che noi abbiamo delle leggi sul diritto d’asilo, ma si evita di applicarle. (…) Oggi l’immigrazione è un dato di fatto, la nostra scelta è se la vogliamo legale o illegale, se vogliamo o no delle politiche di integrazione. Il governo attuale non pone la questione in questi termini, anzi, alimenta politiche quali la cosiddetta “complicità in rendition”, che autorizza l’espulsione e la tortura di ingegneri per sospettato coinvolgimento in terrorismo”. Quando, poi, accuse di incostituzionalità, di violazione dei diritti umani, di istigazione alle discriminazioni vengono rivolte all’ equo Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, la secca risposta è che “Il programma dei respingimenti è in linea con le normative europee ed i trattati internazionali”. Se ne dedurrebbe che, forse, il ministro Maroni quelle normative non le ha neanche lette, magari, chissà, vittima di un tragico inganno. Sia a livello europeo, che a livello internazionale, infatti, sembra essere variamente sottolineato il divieto di espulsione per i richiedenti rifugio i cui paesi di provenienza possano essere considerati luoghi insicuri e irrispettosi dei diritti umani fondamentali.¹ Ebbene, secondo il rapporto Amnesty 2009, i migranti che dalla Libia raggiungono l’Italia provengono per lo più da Eritrea, Somalia, Nigeria e Mali, tutti paesi a rischio. “Che richiedano il permesso d’asilo in Libia” è stata la risposta di Silvio Berlusconi. Ma è forse possibile che il presidente del consiglio, recentemente impegnato nell’approfondimento delle relazioni diplomatiche con il capo di stato libico Muhammar Gheddafi, non sia a conoscenza della quasi inesistenza di procedimenti di tal genere in Libia? Che forse non sappia delle torture nelle carceri libiche, gli anni di reclusione, gli stupri, i maltrattamenti? Direi che accusarlo di ignoranza o stupidità non gli renderebbe giustizia.
“Tahar Ben Jelloun – ricorda Italo De Bernardis, rappresentante di Amnesty International Italia, durante il suo intervento - nel romanzo Il Razzismo Spiegato a Mia Figlia scrive: “Le persone non nascono razziste, ma lo diventano a causa della cattiva educazione”. Quale ci si aspetta, dunque, che sia la reazione di un paese quotidianamente assoggettato a un tipo di informazione talmente fuorviante? Un paese la cui créme de la créme viola deliberatamente i diritti umani, facendosi passare per la “Robin Hood Gang” del ventunesimo secolo, guardiana della sicurezza del defraudato popolo italiano. Un paese che l’agosto scorso ha toccato un nuovo record di debito pubblico, che corre ai ripari in capannoni di latta e plastica, sperando che bastino a salvarlo dalle raffiche. Un paese che (diceva mio nonno, “Chi deve guadagnarsi il pane, non pensa a fare le rivoluzioni”), adesso, aiuta solo la storia a ripetersi.
¹ Convenzione di Ginevra, 1951; Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti disumani e degradanti; Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del Comitato per i Diritti Umani; Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali – cedu ecc.
Irene Burrescia
martedì 20 ottobre 2009
Per un dettagliato rapporto sullo svolgersi delle trattative Italia-Libia, sulle leggi in vigore a livello nazionale e internazionale per quel che riguarda i diritti del rifugiato, sulle critiche delle organizzazioni internazionali e simili, si segnala il seguente resoconto di Fulvio Vassallo Paleologo, Università di Palermo, Componente del Direttivo nazionale dell’ASGI. http://www.liblab.it/ita/Persona-e-societ%C3%A0/Razzismo/Berlusconi-utilizza-la-Finanza-come-carceriere-dei-migranti-libici
[Domande tratte dalla sessione online della rivista bimestrale Micromega]
1) Una delle accuse che vengono rivolte dai sostenitori della “riforma” Gelmini (ammesso che di riforma si possa parlare) al movimento di protesta è quella di rappresentare interessi corporativi ed esprimere istanze conservatrici. E’ una critica fondata secondo te? Se si/no perché? Qual è l’idea di scuola e di un’università che questo movimento esprime? Quali sono le direttici di riforma che – se pur confusamente, come non potrebbe essere diversamente visto il carattere multiforme e composito del movimento – questa protesta tende a delineare?
Partiamo dal presupposto che un metodo educativo non è male nel suo essere “conservatore” o “all’avanguardia”, ma nella sua effettiva efficacia. Quelli riproposti e approvati dalle recenti riforme ministeriali sono sì segni di un ritorno a modelli “vecchio stampo”, ma il vero problema, quello che ne palesa tutta l’incompetenza di fondo, è la denunciata e ignorata incoerenza di tali forme con la società a cui si vuole applicarle e con gli studi dei secoli passati.
“L’educazione, in primo luogo, non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità (…)”, sostiene Jaeger, filologo tedesco del XX secolo, nella sua analisi del concetto greco di paideia. Che si cominci, allora, a tenere conto di tutte quelle “fantastiche ispirazioni per uno spettacolo”, che, forse, qualcosa di “spettacolare” da proporre l’avrebbero sul serio, dalla mozione presentata dalle associazioni dei linguisti e dei glottologi italiani contro l’adozione delle classi ponte, all’appello del settembre scorso rivolto dalle associazioni pedagogiche contro l’insensatezza dell’istituzione di un maestro unico (tuttologo inquadrato e limitante), senza contare tutti quegli studi, a partire dal buon vecchio Aristotele fino all’Emile di Rousseau, che sottolineavano l’importanza della pluralità di stimoli per il corretto sviluppo della coscienza critica del bambino.
Ecco. Che mi si consideri pure un’utopista, agognante a un sistema di “governo illuminato” e partecipato, ma nelle mie più assurde fantasie è e sempre sarà indispensabile una consultazione (se non una ormai improbabile e/o indebita richiesta di essere rappresentata da ministri in sé competenti) di chi del mestiere per la legiferazione in un dato settore, sia esso l’istruzione, la sanità, la protezione ambientale e chi più ne ha più ne metta.
E’ in questo contesto che va inserito il Movimento: in che misura, difatti, è lecito a un governo gestire a suo piacimento le risorse economiche e umane di un paese? Come può pensare di poter continuare imperterrito a definirsi amministratore di una “repubblica”, intesa questa nella sua reale accezione di res publica, il cui centro di gravità deve sempre essere, senza eccezione alcuna, l’interesse del cittadino? Si definisca piuttosto quale realmente è, un gran bel Monopoli, con tanto di funghetto, donnina, bottiglia e candela, “probabilità” e “imprevisti”, dadi un po’ truccati e quell’odiosa casella tra Viale Vesuvio e Via Accademia, la “Prigione”, che tanto, ormai, un Lodo qua, un decreto là, è diventata appannaggio di pochi.
Ci viene chiesto: “Quali direttrici di riforma proponete?”. Rispondo: tante sono le direzioni che una reale riforma del sistema dell’istruzione italiano potrebbe prendere, tutte ugualmente valide, siano esse di destra o di sinistra. Quello che io credo il Movimento si ponga come obiettivo non è una proposta di “riforma dal basso”, ma la presa di coscienza individuale, perché ogni cittadino capisca che una buona amministrazione deve tenere sì conto delle finanze, ma anche del rispetto per i diritti dell’individuo. Che a far questo basterebbe il semplice rispetto della Cedu, la convenzione europea dei diritti umani, la prima al mondo e dalle altre regioni europee presa a modello, è cosa ben nota. E alla voce “osservanza dei diritti fondamentali” ci si propone adesso di rimettere finalmente in gioco quel bistrattato articolo 9 della Costituzione Italiana: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”, troppo a lungo rimischiato di soppiatto nella colonnina “Imprevisti”.
Al modo e ai tempi per effettuare tale riforma, ci pensino dei reali specialisti del settore, ma che tutti gli studenti conoscano il sistema per poter comunque dare il proprio contributo costruttivo.
2) Al di là delle strumentali posizioni sostenute dal governo, è oggettivamente difficile difendere la scuola, ma soprattutto l’università, così come sono oggi. Quest’ultima è il regno della gerontocrazia, dell’immobilismo, del feudalesimo accademico, della totale mancanza di meritocrazia. Quali sono secondo te le linee su cui dovrebbe essere impostata una “riforma organica” del sistema formativo e della ricerca? Quali provvedimenti concreti si potrebbero adottare per migliorare le cose? Es. diverse regole per i concorsi, per l’assegnazione dei fondi, revisione delle lauree 3+2 e del sistema dei crediti, commissioni internazionali per la ricerca, nuovo sistema per la definizione degli insegnamenti, ecc…
In effetti, dalla data di istituzione del NAV (Nucleo Ateneo di Valutazione), organo interno all’amministrazione universitaria che si proponeva di accentuare i controlli sulla preparazione dei docenti e dei ricercatori, ben pochi sono stati gli obbiettivi effettivamente raggiunti. Gli studenti compilano un questionario di fine corso, che ancora di rado influenza la distribuzione dei fondi da parte degli organi centrali di facoltà. Il sistema dei concorsi continua a essere pilotato con vari mezzucci, più o meno evidenti agli occhi dei più. Prendiamo, ad esempio, il variamente sviscerato decreto 180, che, se preso nella sua forma ufficiale e letto a una platea di studenti universitari, risulterebbe ai poveri malcapitati di a dir poco ardua comprensione. Un urgentissimo decreto che, sotto la maschera di paladino della giustizia contro le spietate grinfie baronali, celava una bella stretta di mano con la Forza dell’Ignoranza. Ebbene sì, perché quel “imparziale” sorteggio delle commissioni giudicatrici della docenza non tocca di un centimetro la posizione del commissario interno alla Facoltà che ha indetto il concorso, dando un’ulteriore mazzata alla qualità della valutazione con l’effettuazione del sorteggio dei quattro rimanenti tra docenti di materie appartenenti allo stesso settore scientifico disciplinare, o in mancanza di questi, anche tra docenti di settori affini. Per intenderci: lingua e traduzione coreana e lingua e traduzione giapponese presentano lo stesso codice L-OR/22, e affine ad esse può essere considerata, ad esempio, la Storia dell’Asia. Risultato? Una commissione-calderone quasi del tutto priva, se non con un po’ di fortuna a mo’di “Gira-La-Ruota”, delle competenze necessarie a giudicare un docente specializzato. Un sistema immobile che, fondato su una solida base di clientelismi e quindi privo di alcuna forma di libera competizione, sembra incapace di assicurare il buon funzionamento persino di quelle sue parti in teoria ben pensate.
Proviamo a pensare al sistema di borse di studio vigente in Italia, che, seppur con le sue pecche, vedrebbe degli ottimi risultati in un’applicazione ottimale, se anche qui non subentrasse una delle peggiori bestie tra le piaghe culturali italiane: la sign. Evasione Fiscale. Certo, a braccetto con l’amica Mancanza DiControlli. Infatti, se un bel giorno mi svegliassi e mi accorgessi di aver dichiarato un ISEE (Indicatore di Situazione Economica Equivalente) inferiore rispetto al dovuto, come potrei fare per cambiarlo e non evadere le tasse? Questa la domanda che ha realmente posto una studentessa di Lingua e Traduzione Araba alla segreteria didattica di Studi Orientali. La risposta? “Lasciala com’è, fa lo stesso…”. No comment.
E allora ci chiediamo ancora il perché? E’ abbastanza evidente che i provvedimenti da prendere spaziano da una seria revisione delle leggi di reclutamento, che vedano commissioni miste, competenti, esterne alla Facoltà che indice il concorso e che contengano degli esaminatori internazionali, a un totale ridimensionamento dei corsi di laurea: piani di studio uniformati a livello nazionale (perché uno studente di Medicina di Palermo possa decidere di trasferirsi a Roma, Napoli, Pisa ecc. se e quando più gli aggrada) e internazionale (per favorire la mobilità studentesca secondo quelle che erano le prerogative iniziali del 3+2); revisione dei piani di studio in accordo con lo sviluppo della società moderna; pari opportunità a tutti i livelli della società; incentivi per un compensamento dell’attuale cosiddetto brain drain, in Italia ancor più grave che in altri paesi non tanto per la percentuale di drenaggio, ma per la qualità dei “cervelli in fuga”, troppo spesso altamente qualificati [vd. Realtà e retorica del brain drain in Italia, stime statistiche, definizioni pubbliche e interventi politici, Lorenzo Beltrame, 2007].
Per quante possano essere le modifiche da apportare al sistema attuale, due fattori devono comunque essere tenuti in considerazione: uno di questi è il necessario sviluppo di un senso critico nello studente, che impari a respingere lo sterile immagazzinamento di nozioni ai fini dell’esame, che non costituirà mai la reale “cultura”. Sembrerebbe una banalità, eppure “ […] Nicholas Lemann, giornalista e scrittore contemporaneo […] sostiene anche che la parola “cultura”per la maggioranza degli italiani significa erudizione di tipo classico e non capacità di ragionare” (Meritocrazia, R,Abravanel, 2008).
E qui subentra la tanto discussa idea di “autoformazione”, una partecipazione dello studente come reale centro di un sistema educativo che si modella intorno alla sua persona, in costante evoluzione, e non viceversa. Lo studente deve essere posto nella condizione di assimilare dei contenuti criticando attivamente l’oggetto di studio: “Come infatti accettare acriticamente che un valore politico o culturale, religioso o artistico si giustifichi anche ipso-facto come valore educativo?”, si chiedeva qualche anno prima di morire Giuseppe Flores d’Arcais, filosofo pedagogo dell’università di Padova. E il docente deve essere l’artefice di tale condizione.
Il secondo fattore, ma non per questo meno importante, è l’affermazione di un più profondo significato del concetto di “meritocrazia”, dove per “meritocrazia” si intenda un qualcosa che vada ben oltre la retorica filo-governativa di questi anni. L’Italia necessita di una forte presa di coscienza individuale, nella cui ottica la “meritocrazia” vada posta come mezzo di cambiamento culturale: soltanto così la corruzione, i nepotismi, la gerontocrazia lasceranno spazio alla competenza.
3) Vista l’assoluta trasversalità di questo movimento, che riunisce praticamente tutte le figure del variegato sistema formativo italiano (studenti, insegnati, maestre, dottorandi, ricercatori precari, professori di ogni ordine e grado) è possibile che esso trovi la forza e la “maturità politica” per districarsi tra interessi che possono rivelarsi anche molto contrastanti tra loro se posti di fronte a proposte concrete di riforma? Ogni seria riforma – e per essere seria non può che porsi come obiettivo anche quello di rimescolare rapporti di forza consolidati da decenni – tende a toccare interessi molto concreti. Così come si è configurato questo movimento, può fare i conti con queste sfide? Ne è all’altezza? Quali interessi corporativi è disposto a colpire?
La “maturità politica” è qualcosa che tanti in Italia devono ancora sviluppare, figuriamoci un movimento eterogeneo (come è giusto che sia), sballottato tra tentativi di strumentalizzazione e questioni di interesse di molto più grosse di lui. Gli interessi che effettivamente si andranno a colpire, non saranno mirati in modo diretto. Mi sembra ovvio che se vado a modificare, ad esempio, la disposizione dei piani di studio nelle varie Facoltà, eliminando tutti quei corsi fittizi e rivalutando tutto il corpo docenti, magari mandando a casa chi di competenza ne ha dimostrata ben poca e inserendo in organico (tanto tra i docenti che nel personale amministrativo) un buon numero di persone realmente capaci, beh, certo che qualche interesse si andrà pure a ledere.
Di sicuro ci saranno i momenti di difficoltà: se prima il cittadino italiano non avrà imparato a guardare oltre la luce del proprio “lanternino”; finché non avrà compreso il concetto di “politica” come l’intricato groviglio di meccanismi di un orologio, dove, tolta una rotellina, sì, potrebbe ancora funzionare, con qualche botta di tanto in tanto, ma con il costante rischio che si fermi per sempre; se non avrà fatto propria l’idea di “trasversalità” che rende unico questo movimento, allora ogni sforzo di collaborazione sarà inutile. Perché un rapporto funzioni, sia esso lavorativo, affettivo, economico ecc. è d’obbligo che in momenti di forte crisi entrambe le parti sacrifichino qualcosa, e così è adesso. “Maturità politica” significa anche questo, riuscire a guardare con occhio imparziale la situazione in cui verte lo Stato, ed essere disposti a dare il massimo anche in termini di autocritica.
Solo con queste basi, quella che allora potremo definire “Società”, vedrà un superamento dell’ostacolo dei rapporti di forza, una reale ripresa culturale, e, di conseguenza, anche economica.
4) Il governo – scottato dal crollo dei consensi che la protesta universitaria ha provocato – sembra voler procedere con maggiore prudenza nella riforma dell’università. Dopo una prima fase di straordinaria mobilitazione, riuscirà il movimento a mantenere alta la tensione e il coinvolgimento delle persone? Quali sono gli obiettivi di medio termine che dovrebbe porsi? Come dovrebbe procedere la mobilitazione? Quali idee concrete possono essere messe in campo per proseguire la lotta?
Non credo che quella del governo possa essere definita come una reale marcia indietro. D’altronde, quello che era il consenso iniziale si mantiene, se non del tutto almeno in buona parte, grazie a un’attenta manipolazione dell’informazione. Quanti giornali continuano ancora a commissionare servizi sulle rivolte universitarie? Quante opinioni nuove, quanti sfoghi se non quelli di chi del mondo dell’informazione di massa non ha mai fatto parte? E adesso, come se già tutto il resto non bastasse, si parla anche di “regolamentare internet”, evidentemente un po’ scomodo agli occhi di chi della disinformazione ha fatto la propria arma più tagliente.
Sono dell’idea che se un pinco pallino qualsiasi, sia egli il Papa in persona, il maestro Gandhi o lo sguattero di casa Malavoglia, avanza una proposta di qualunque genere, questa sarà presa in considerazione nella misura in cui chi giudicapossieda quel senso critico che solo un’adeguata informazione è in grado di dargli. In tale contesto, mi auguro che il movimento continui nell’opera di sensibilizzazione. A quel punto la partecipazione, per sua natura direttamente proporzionale all’informazione, non potrà far altro che crescere con il passare del tempo. Sciogliere il velo di Maya, e con esso il finto consenso di chi ignora. Quella sarebbe una battaglia vinta, e, a mio parere, la più difficile tra tutte, considerato che gli ignoranti in questione non hanno il minimo sentore di ignorare.
5) Si è discusso molto sulla presunta “apoliticità” del movimento. E’ una lettura realistica e soddisfacente secondo te? Secondo te si tratta veramente di un movimento apolitico o forse è più che altro un movimento “apartitico”? Quali aspetti – se ve ne sono – ne determinano la “politicità”? Questo superamento delle tradizionali collocazioni – se c’è stato – ha aiutato il movimento a diffondersi o può essere una sua fonte di debolezza quando dalla protesta si passa alla proposta?
Buffo che sia bastata l’ambiguità del termine “politico” per comprendere tutta la confusione, e di conseguenza il disinteresse, che le nuove generazioni, compresa la mia, mostrano nei confronti dell’amministrazione dello Stato, ormai quasi percepita come oligarchica. Sì, perché per “politica” non si intende più la collettiva organizzazione della vita pubblica, bensì tutto ciò che ha a che fare con i simpatici omini in giacca e cravatta che giornalmente riscaldano le sedie del parlamento, scambiandosi favori, mazzette, schiaffi e strette di mano. Quindi “politico” è adesso sinonimo di “partitico”.
Tralasciando le incomprensioni di fondo, il Movimento è senza alcun dubbio politico, con i suoi pro e i suoi contro. I pro sono tutti quelli che rientrano nella libera espressione, nella positiva organizzazione e autofinanziamento, negli scontri di idee che vedano poi l’individuazione di linee comuni. Ahimè, tra i contro sono da tenere in conto le infinite assemblee di discussione dei metodi e i tempi di proposta, perché, ripeto, in politica (quella vera), esistono delle rinunce ai fini del bene migliore, o del male minore. Qualcuno, giustamente, ritiene ancora che il male minore sia sempre quello altrui: questo è, a mio parere, il peggior punto di debolezza non solo del movimento, ma della nostra cultura in linea generale, nonché la causa del rifiuto di comprensione reciproca tra governo e società, rinunciando, a questo punto, all’utopica speranza che le due parti possano finalmente essere fuse insieme come le due facce di una stessa medaglia e che una proposta di miglioramento possa quindi essere accettata per la sua effettiva funzionalità piuttosto che per la posizione gerarchica di chi la esprime.
6) E’ condivisibile che si ricerchi un’intesa anche con organizzazioni studentesche esplicitamente di destra in nome dell’unità della protesta studentesca oppure no? La partecipazione di queste organizzazioni a manifestazioni pubbliche dovrebbe essere incoraggiata, tollerata, oppure concretamente osteggiata?
Personalmente (e sottolineo il fatto che di opinione personale si tratta), prima di intavolare una conversazione con una persona sulla res universitaria non mi è mai passato per la mente di chiedergli tesserino, orientamento politico o qualifica di alcun genere. Poco mi interessa sapere se chi scende con me in piazza contro una pessima riforma universitaria e tutto il resto passi la notte ad accendere lumini a Mussolini, o si mangi i bambini a colazione. Ma che nessuno si metta in testa di poter liberamente sfruttare questa protesta, che poco ha a che fare con gli scontri di partito, portando la violenza per le strade in nome dei propri ideali, qualunque essi siano. La non-violenza è la forza più dirompente di cui un uomo possa disporre. Più potente della più potente arma di distruzione escogitata dall'ingenuità umana: questo insegnava Gandhi. E questo è quanto di più giusto possa essere trasmesso a chi oggi decide di forzare quei meccanismi che ritiene impropri, perché capisca che, soprattutto in questi casi, la violenza non appare come altro che il simbolo di una radicata mancanza intellettuale. Detto questo, che chiunque si senta libero di dire la propria e di partecipare attivamente alla protesta.
7) Negli ultimi anni il nostro Paese è stato caratterizzato da una grande diffusione di movimenti (da quello no-global, ai girotondi, al movimento per la pace, alla battaglia sindacale per la difesa dell’articolo 18, alle vertenze territoriali come il No-Tav e No-Dal Molin, ecc.). Colpisce però la discrepanza tra la straordinaria capacità di mobilitazione, di fare “massa critica” anche ad un livello sociale e culturale diffuso, e la scarsissima “capitalizzazione politica” che ne è seguita. Oggi siamo addirittura l’unico Paese europeo a non avere una riconoscibile rappresentanza di sinistra nelle istituzioni rappresentative. Il problema dello “sbocco politico” è un problema che questo grande movimento nato nelle scuole e nelle università si deve porre? Oppure va privilegiata la totale “autonomia” del movimento? Quali rapporti possono essere instaurati con le forze politiche esistenti? E se quelle esistenti non offrono possibilità di un’interlocuzione soddisfacente, può essere utile e realistico porsi l’obiettivo di una organizzazione politica nuova, che superi anche i limiti del “modello partito” tradizionale, o più modestamente di liste elettorali di “società civile”, senza partiti, nelle diverse occasioni? Insomma, il problema della rappresentanza è un problema che questo movimento – che si definisce “irrappresentabile” – dovrà prima o poi porsi?
Rappresentatività presuppone sempre fiducia. Ma già io, italiana, vent’anni e due votazioni alle spalle, sono l’incarnazione della delusione: ho ormai perso la fiducia tante di quelle volte! Facendomi forza, cercando di credere ancora una volta che le cose potessero se non cambiare almeno migliorare, sperando che potesse esistere ancora qualcuno in grado di andare oltre i propri interessi, per dedicare alla causa di una buona amministrazione tutti i mezzi a sua disposizione…
Sembra, di fatto, che chiunque, anche il più santo dei pii, una volta arrivato a tenere lo scettro, si perda in un labirinto senza fine, tra corruzioni e malaffare. E adesso mi chiedo: è lecito che qualcuno si ponga come rappresentante politico di un movimento tanto eterogeneo? Sarebbe in grado di rispettarne tale eterogeneità, abbastanza moderato da poter mediare tra interessi contrastanti senza dimenticare gli obbiettivi comuni, consapevole delle responsabilità racchiuse nella sua persona? E’ pur vero che, storicamente, ogni movimento sociale ha sempre finito col cercare dei propri spazi nell’ufficialità di un sistema amministrativo, dall’interno del quale potere agire concretamente. Ergo nescio.
Nella mia ottica, ripeto, basterebbe quel difficile cambiamento culturale che possa, al ricambio dell’attuale classe dirigente (che prima o poi avverrà, perché, signori miei, nessuno campa 120 anni!), portare al governo persone competenti e responsabili, coscienti delle necessità e dei difetti di uno stato, inteso questo come insieme di cittadini pensanti e partecipi.
Irene Burrescia
Facoltà di Studi Orientali, “Sapienza” Università degli studi di Roma, prestanome del fantomatico strumentalizzatore
Mercoledì, 14 Ottobre 2009, aula 8, ore 11:00 Proiezione di una selezione del documentario "Respinti". Segue dibattito sul tema immigrazioni e respingimenti. Interverranno: -prof.ssa Maria Cristina Paciello, docente di "Studi Orientali"; -prof.ssa Daniela Pioppi, docente di "Studi Orientali"; -Italo De Bernardis, Amnesty International Italia.
Sabato, 17 Ottobre 2009, p.zza della Repubblica, ore 14:30 Manifestazione Nazionale contro il Razzismo. Appuntamento in cortile, ex caserma Sani, ore 13:00.
Studio e Trascrivo: le Perle d'Oriente
Centinaia di migliaia perirono per mano di persone che- guidate dai comandanti della carneficina – uccidevano in nome della “propria gente” altre persone. La violenza è fomentata dall’imposizione di identità uniche e bellicose a individui abbindolabili, sostenute da esperti artigiani del terrore (Amartya Sen, “Identità e violenza”)